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Semiotropie. Eredità di Barthes
A cura di Giuseppe Crivella




III. Ecolalie di un ordigno iconico.
La Semiologia come decostruzione della linguistica in Barthes e Pasolini [1]
di Giuseppe Crivella

16 febbraio 2016




Abstract: from literature to cinema, from language to image. The essay develops the parallelism between the critical paths of Roland Barthes and Pier Paolo Pasolini, classified according to two criteria of interpretation: 1. The treatement that they reserve the linguistic medium after the impact of structuralism on the study of literature; 2. The transition to codes filmographic that Pasolini and Barthes, face from differing perspectives initially, then head to a point of convergence increasingly evident.

Keywords: Roland Barthes, Pier Paolo Pasolini, Analog Codes, Semiotic of images, Daniel Boudinet.


Più o meno negli stessi anni in cui si compiva per Barthes la decisiva transizione verso il territorio delle immagini, anche un altro intellettuale in modo sempre più radicale si stava muovendo secondo la stessa traiettoria. Se per il primo si trattava di spostarsi da una semiologia di stampo prettamente saussuriano, e quindi linguistico, verso una fenomenologia selvaggia, per il secondo lo slittamento avveniva in vista di quella che egli stesso di lì a qualche anno avrebbe definito «Linguaggio Scritto della Realtà» o anche «soliloquio vitale della realtà con se stessa» [2].

Sia Barthes che Pasolini ad un certo punto avvertono quindi l’angustia dei limiti metodologici e teorici della nascente semiotica e così da una parte sentono che il segno frustra senza remore l’esistenza inquieta dell’oggetto, mentre dall’altra notano che esso, trasferito nel campo proprio della immagine, è in grado di dispiegare delle potenzialità critiche e speculative inedite e inattingibili, se limitato al solo medium linguistico.

Se per Barthes il rapporto con l’immagine si inscrive all’interno di una fitta rete di perplessità, per Pasolini l’immagine erompe al centro della sua riflessione col carattere liberatorio di una rivoluzione inaspettata e felice, non priva tuttavia di ambiguità che esporranno il poeta bolognese a non poche critiche da parte di molti semiologi italiani — è, ad esempio, molto nota la querelle nata con Umberto Eco a proposito dell’esistenza o meno di una doppia articolazione [3] in seno al linguaggio cinematografico – nonché sinceri apprezzamenti soprattutto oltralpe, dove studiosi come Metz e Deleuze più volte esprimeranno la loro ammirazione nei confronti degli studi di Pasolini sull’immagine cinematografica [4].

Si prenda Roland Barthes par Roland Barthes, testo del 1975, exemplum di una ricostruzione autobiografica che cerca di alleggerire la funzione e la nozione di soggetto/scrittore: la meditazione che apre il volume testimonia immediatamente di una fascinazione anodina ed oscura che l’autore accusa dinanzi alle immagini, quella fascinazione che Barthes più volte nel corso della sua opera tarda chiamerà sidération [5], alludendo con tale espressione ricorrente una sorta di potere meduseo di cooptazione sibillina dello sguardo e del pensiero connaturato alle immagini, del tutto opposto invece a quella jouissance du Texte che Barthes aveva avuto modo di sperimentare e di riconoscere come strutturale a certi tipi di scritture pochi anni primi ne Le plaisir du texte [6].

Per Barthes sembra che l’immagine affiori come qualcosa di spettrale da un fosco fondo di irredimibile passato, intriso di un’atmosfera che risuona con accenti struggentemente funerei. L’immagine però qui non rappresenta una minaccia, piuttosto costituisce una sorta di tenebroso turbine di immobilità ove la memoria rischia di insabbiarsi come un relitto deragliato fuori dal tempo. È forse proprio per questo motivo che l’autore suddividerà quel formidabile miroir d’encre [7] che è Roland Barthes par Roland Barthes in due sezioni ben distinte: la prima dominata dalle immagini, ove il testo solo a fatica riesce a star dietro alle fotografie che cercano di ricostruire in modo frammentario e quasi episodico l’épars di una vita che ci si sforza di vedere dall’esterno, la seconda “fatta” solo di scrittura, dove non c’è più posto per le immagini.

Anche applicata all’immagine quindi la semiologia barthesiana rimane una semiologia del testo contro l’opera, del senso progettato e vissuto come molteplice volume in fuga contro lo strato contratto dei significati ossificati di una tassonomia linguistica prima e culturale poi che non ammette evasioni o effrazioni. Ciò accade perché ancora nel ’75 l’immagine per Barthes appartiene al dominio dell’analogico puro [8], alla dimensione protervamente mimetica di un segno asservito alla aderenza piena del reale, appartiene quindi ad una pratica di generazione precostituita del senso ove forse è possibile scorgere a ben guardare una sorta di velato crittogramma del potere.

Sappiamo tuttavia che Barthes di lì a poco supererà questa diffidenza — questo timore — per l’analogia, da una parte orientandosi sempre più verso il cinema dei russi e la scrittura di Diderot, dall’altra facendo della sua mirabile scrittura, prensile e manipolatrice, una sorta di piccolo museo privato e trasversale ove ospitare riflessioni sulle opere di Réquichot e Masson, Arcimboldo e Erté, von Gloeden e Cy Twombly [9], ravvisando soprattutto in quest’ultimo un connotato particolare dell’immagine, la quale viene a collocarsi su quella frontiera invisibile che Barthes aveva lungamente percorso e meditato durante il suo soggiorno nipponico [10] e lungo la quale il segno è colto da un vacillamento felice e irriducibile che lo porta a fare della parola un disegno epurato d’ogni obbligo referenziale e del disegno una parola liberatasi ormai di ogni precostituita disposizione semantica, una specie rarissima e fugace di scrittura apolide e policefala la quale confonde i domini che attraversa, scompagina i significati che veicola, disorienta e sventa l’entrata in gioco di ogni ratio seccamente rappresentativa, facendo del segno una figura anfibia che galleggia e scompare all’incrocio di innumerevoli codici, ormai frananti l’uno sull’altro, l’uno nell’altro.

Anche nei confronti del cinema Barthes non ha poche resistenze: lo schermo prima bianco e poi nero, solcato da lampi e bagliori, rappresenta per il suo occhio uno spazio periclitante di visioni ingannevoli; l’immagine divora lo sguardo, dispiega un’area di ingestibile captazione ove la vista finisce con lo sprofondare nel non-luogo di una figura che, nel tendere il proprio tranello ricorrendo ai protocolli della più schietta verosimiglianza, insuffla di concerto in esso le forme sibilline di un immaginario impersonale, sottilmente trans-elaborato dalle sapienti e inapparenti logiche sottocutanee della ideologia:
l’immagine filmica che cos’è? Un inganno [leurre]. Bisogna intendere questo termini nel senso analitico. Io sono chiuso con l’immagine come se fossi preso nella famosa relazione crudele che fonda l’Immaginario. L’immagine è lì, dinanzi a me, per me: coalescente (il suo significante e il suo significato sono ben fusi), analogica, globale, pregnante; è un inganno perfetto: io mi precipito su di essa come l’animale sul lembo di panno rassomigliante che gli si tende [11].
Analogico e ideologico per Barthes sono legati da una ferrea alleanza, vigorosa e vischiosa: la rassomiglianza strangola il pensiero, ingabbia il senso, ne arresta la fuga assiderandolo nelle anguste maglie di un linguaggio piattamente figurativo che non ammette deroghe o infrazioni, tranquillizzante perché condiviso, condiviso perché stereotipo. L’immagine ad un certo punto smette di essere tale, la sagomatura sul reale è condotta talmente in profondità che essa subentra a quello. L’immagine aderisce senza resto alla carne della verità, consumandone ogni spessore riposto. Lo spettatore si trova così incollato alle cose stesse tramite il medium imitativo, che a poco a poco scompare erodendo ogni spazio di distanza critica tra l’occhio e la figura. La coscienza dello spettatore è così portata a coincidere senza resto, in una identificazione morbidamente, coatta con ciò che crede essere il proprio immaginario e che invece non è null’altro che il prodotto messo a punto dalla ideologia, la quale dispiega sullo schermo le proprie potenzialità di sottile contraffazione.

Ipnosi, fascinazione, siderazione: il vocabolario di Roland Barthes ruota attorno ad una vicenda di minuto scollamento del soggetto dalla propria facoltà immaginativa, dalla propria visione, dal proprio occhio, che diventa l’insituabile spazio di contaminazione e collisione tra flussi di immagini eterogenei e tuttavia in grado di fondersi e trasfondersi in un processo di coalescenza inavvertibile, la quale schiaccia l’io stesso dell’individuo sulle immagini dello schermo.

Ecco che si viene a creare ciò che Barthes, con una espressione felicissima, chiama circolo duale [12]: il soggetto si trova collocato al centro di uno spazio concreto, materiale — la sala del cinema — che in realtà esiste solo all’interno dello spazio immaginario dell’io, come una presenza malignamente parassitaria che alligni in esso sostituendosi ad esso. È proprio per questo motivo che Barthes si concentra molto sullo schermo e su ciò che precede l’apparizione delle figure su di esso. La stessa malizia decostruttiva che egli aveva messo in opera nei confronti della scrittura, ora egli la applica al cinema, approntando una sorta di fluido e lacunoso metalinguaggio filmografico che scompone il meccanismo di proiezione negli elementi che lo costituiscono, disponendoli e allineandoli in una sorta di instabile asse paradigmatico di eterocliti tratti pertinenti, in modo da poterli analizzarli anteriormente alla loro flessione sintagmatica:
in questo cubo opaco, una luce: il film, lo schermo? Sì, certo. Ma anche (ma soprattutto?) visibile e non percepito, questo cono danzante che buca il nero, come un raggio laser. Questo raggio si converte, secondo la rotazione delle sue particelle, in figure mutevoli; noi giriamo il nostro sguardo verso la moneta di una vibrazione brillante il cui imperioso getto passa radente sul nostri cranio, sfiora […] una capigliatura, un volto. Come nelle vecchie esperienze di ipnotismo, siamo affascinati, senza vederlo frontalmente, da questo luogo brillante, immobile e danzante [...]. Tutto accade come se un lungo stelo di luce venisse a sagomare una serratura e noi vi guardassimo attraverso, siderati da questo buco [13].
Cinque anni prima di questo testo, è noto, Barthes aveva dedicato un piccolo saggio ad Ejzenštein, intitolato Le troisième sens [14]. I due scritti vanno letti insieme: il primo nasce come riflessione sulle possibilità di liberazione del senso, mentre il secondo è una meditazione sulle dinamiche di frustrazione e castrazione del senso. Il film adesca l’occhio e il pensiero, allude ad una seconda natura che viene confusa con la prima. Lo spettatore è proiettato in una proiezione illusoria che non riesce a recepire e a vivere come tale. Per questo è necessario quel capillare smontaggio genetico che il saggio su Ejzenštein mette in campo, i cui scritti teorici sul cinema appaiono agli occhi di Barthes altrettanto importanti per déjouer gli inganni dei linguaggi figurali come lo era stato decenni prima per lui la lettura e lo studio del Cours saussuriano.

E non è un caso che egli vada ad analizzare il fatto cinematografico partendo dal fotogramma, riducendolo quasi completamente al fotogramma, letto come un frammento esplosivo depositario di una carica semantica ad altissima potenzialità dissociativa liberata nell’attimo in cui la sequenza di immagini viene bloccata e segmentata nel fascio dei suoi formanti. La siderazione per forza di cose deve interrompersi, così come la fascinazione è messa in mora, svelata quale risultato più che sospetto, e quindi arrestata, condotta quasi a decomporsi. L’occhio vaga sulla superficie opaca del fotogramma in cerca del referente-zero che veicolerebbe il senso, rimanendo però deluso, frustrato da questa ricerca che si arena in un pulviscolo cristallizzato di figure mute.

Concepita così la originalissima semiologia barthesiana pare affine ad una puntiforme e circostanziata epochè [15], la quale riesce a far apparire una sorta di eidetica vuota o del vuoto, ponendo le premesse per una intuizione cieca ove il senso instillato in essa dall’inganno della morbida violenza analogizzante finisce per circolare libero da ogni rassomiglianza, si diffrange in una serie di aderenze sempre inadeguate e illogiche rispetto a quanto viene rappresentato, fino ad evaporare in una rarefatta ascesi semantica molto affine a quella prodotta dal satori, nella cui fenomenologia obliqua ciò che finalmente può apparire è una geologia differenziale [16] non tanto dei sensi veicolati dell’immagine quanto delle possibilità stesse dell’immagine di trasmettere sensi che ne siano la paradossale contestazione intestina.

È sulla base di questa prospettiva che Barthes, durante gli ultimi anni della sua attività di critico, più meno nello stesso periodo in cui poneva mano a La chambre claire, si avvicina all’opera di Bernard Faucon e soprattutto di Daniel Boudinet, il cui scatto dal sapore lynchano intitolato Polaroid è posto in esergo al testo del 1980 sulla fotografia. E proprio per alcune immagini di Boudinet nel 1977 Barthes scrive una serie di brevi commenti che sembrano contrassegnare il momento della sua definitiva conciliazione col mondo delle immagini. Créatis è il titolo della sequenze di scatti che il fotografo aveva dedicato a paesaggi e scorsi di vita campestre ove Barthes può finalmente leggere la presenza di una natura vissuta come massa vegetale tendente all’amorfo, al non culturalizzato, espressione di una immagine che con forza e delicatezza cerca di eludere ogni ottemperanza ad una forma codificata. La bellezza della natura qui appare come qualcosa che si mostra ma non si dice, tramite segni che vanno letti unicamente come «geroglifici dell’animato» [17], segni della sua stessa sospensione, tracce sparse tramite cui raggiungere una catarsi sottile dal centro della quale la rappresentazione comunica direttamente col denso mostrarsi di una natura presente e ancestrale.

Non deve stupire allora che Barthes chiuda il suo commento sull’immagine ravvicinata del terreno costellato di residui organici, di frammenti d’ossa, radici annodate e foglie marce:
la terra vista da vicino: humus, rametti spezzati, acqua stagnante, frantumi: germinazione e corruzione. Un fringuello, carne da gusto forte, un cavolo roso dalla suzione delle lumache, come un rovesciamento inevitabile della bella Natura arborea che abbiamo appena lasciato [18]. eppure, chiudete gli occhi: gli alberi restano, abbaglianti, nella nostra testa, inciso sul rovescio delle nostre palpebre; non potete disfarvene; vedete, grazie a una sorta di permanenza confusa, non questa o quella immagine, ma una sorta di distesa vegetale, sontuosa e austera, una sorta di invito silenzioso a...«filosofare». [19]
Completamente diverso appare il caso di Pasolini. In lui da subito l’immagine assume l’aspetto dell’effetto o dell’origine di un sommovimento espressivo che lacera la lingua, vi apre crepe, ne scava la lucida compattezza, la mette in mora a favore della Realtà che essa presume di poter elettivamente riprodurre, comunicare, enunciare. Per Pasolini la lingua è un ordine abusivo imposto alle cose, le quali, interrogate e sollecitate dalla macchina da presa, reagiscono opponendosi alla parola, sopravanzandola, intorbidandola fino al più basso grado di espressività.

L’immagine si impone come qualcosa di visceralmente eruttivo, in grado quindi di infrangere la plastica compagine livellante della lingua così da neutralizzarne le diverse classificazioni: alla luce di ciò l’immagine — e soprattutto l’immagine cinematografica — può assurgere al ruolo di pratica speculativa tramite la quale perseguire una «autoterapia inconscia» [20] la quale non potrà non condurre a vedere e a intendere la realtà se non come un linguaggio.

Abbiamo visto che per Barthes l’immagine è un leurre, una trappola di matrice analogica, che non lascia spazio alcuno a ciò che egli nel 1964 aveva chiamato immaginazione del segno [21] e che dunque non concede movimento alla vertigine semiologica poiché già disinnescata alla radice, poiché imbrigliata nel reticolo di indicazioni piattamente referenziali dirette, prodotte e scandite dal frusto protocollo di una uguaglianza infrangibile, di una gemellarità è — segno/oggetto — indissociabile e castrante.

Di fronte al medesimo fenomeno Pasolini sperimenta l’esatto contrario: l’immagine deflagra silenziosamente nello spazio del segno. Essa incarna l’epifania polisensa dell’inclassé — per usare un termine barthesiano — tracima al di fuori dei codici linguistici sintetizzandoli, contraendoli quasi caoticamente e geneticamente in sé, in una sorta di verticale totalizzazione semantica delle manifestazioni a cui essa dà luogo e da cui essa stessa deriva [22]. In Pasolini l’immagine si afferma senza mediazioni e in modo improvviso, portandosi dentro la forza informe e palingenetica dell’elementare è quella stessa forza che Barthes arriverà a decifrare solo molto tardi nelle foto di Boudinet e dopo una lunga frequentazione intrisa di scetticismo con l’immagine – dell’ingestibile, della concretezza recalcitrante alle categorizzazioni, simile a una sorda spinta materiale che non ammette alcuna conformazione espressiva definita o definitiva.

In Barthes l’immagine parlava da subito il linguaggio corrotto dell’esistenza addomesticata, forse narcotizzata se non addirittura inumata nella propria indefettibile somiglianza con se stessa. In Pasolini tale somiglianza fa invece in modo che nulla la possa imbrigliare o limitare: il cinema diventa quella boîte à vision in cui le cose si riappropriano di se stesse, tornano a combaciare perfettamente con la selvaggia dismisura, organica e inorganica, reattiva e repulsiva, propria della loro piena e tortuosa presenza mondana. In Barthes troviamo una estrema cautela nel porsi di fronte all’immagine: essa è l’ombra portata di una luce impersonale — quella della ideologia latente in tutto — la proiezione di un immaginario collettivo condizionante e livellante. In Pasolini di contro troviamo una sorta di organico, tellurico, corporeo rapimento estatico: il suo linguaggio sfocia nel mistico, poiché nell’immagine prende vita una ierofania [23] del concreto che risulta inconcettualizzabile.

La semiologia di Barthes è una semiologia della riduzione, dell’azzeramento semantico, della selezione precisa e dislocante, della segmentazione disorientante le preformate catene associative: l’immagine va epurata dalle sue trasparenti scorie ideologiche tramite la frammentazione in fotogrammi isolati, rescissi dalle logiche di denotazione diretta. La semiologia di Pasolini è una semiologia della espansione improvvisa, della amplificazione e della proliferazione semantica non sorvegliata, del concatenamento infinito: La Realtà ripresa dalla macchina è immediatamente segno bruto e non vagliato di se stessa, appare nudamente e selvaggiamente in una trama ricchissima di meri «sintagmi viventi» [24] che rimandano soltanto alla loro esistenza e alla loro presenza, segni puri della loro completa immanenza a se stessi, pervenendo così a ricostruire quel «soliloquio vitale della Realtà con se stessa» [25] che porta Pasolini a far coincidere la Semiologia Generale della Realtà con la semiologia del cinema. [26] In uno dei passi più penetranti Pasolini argomenta così:
mi si consenta la libertà del poeta che dice liberamente cose libere […]. Questa quercia che ho davanti a me, non è il «significato» del segno scritto-parlato «quercia». No, questa quercia fisica qui davanti ai miei sensi è essa stessa un segno: un segno non certo scritto-parlato, ma iconico-vivente o come altro si voglia definirlo. Sicché, in sostanza, i «segni» delle lingue verbali non fanno altro che tradurre i «segni» delle lingue non verbali; o, nella fattispecie, i segni delle lingue scritte-parlate non fanno altro che tradurre i segni del Linguaggio della Realtà. [27]
L’immagine in tal senso è la fedele trasposizione di quella sorta di immenso monologo che la Realtà intrattiene da sempre con se stessa e che fa in modo che essa non sia altro che la traduzione puntale di una enorme e inesauribile Tautologia metalinguistica in forza della quale ogni oggetto ripreso è soltanto segno di se stesso, in grado cioè di esprimere solo se stesso in una specie di traduzione per evocazione della sua presenza spontaneamente e naturalmente «cifratrice». [28]

Pasolini, sfoderando una imprevedibile vocazione analitica alla sistematizzazione da semiologo navigato, tra il 1965 e il 1971 muoverà risolutamente da questi assunti per giungere a enucleare i cinque principi-cardine su cui far ruotare tutta la complessa e pluristratificata ricchezza della sua pansemiologia [29], incarnatasi nel linguaggio allo stato brado di una ipotetica immagine cinematografica assoluta e priva di tagli, una sorta di piano-sequenza infinito, come più volte egli stesso si trova a definirlo. Inoltre, a fronte di questi cinque principi Pasolini, incrociando i ferri con i più agguerriti semiologi, critici letterari e scrittori del tempo [30], enumererà nel saggio che chiude Empirismo eretico i nove codici che scandiscono e strutturano la messa in forma di una Realtà auto-significantesi, affine cioè a ciò che pochi anni primi Merleau-Ponty aveva definito come «ventriloquia dell’Essere» [31].

Dal momento che neppure Pasolini ha problematizzato ulteriormente questi nove codici, noi ci limiteremo qui ad elencarli, mentre dedicheremo nelle battute finali qualche parola in più per la precisazione dei cinque assunti. A differenza di Pasolini però noi ridurremo a cinque il numero dei codici dato che, come vedremo immediatamente, quattro di essi possono benissimo essere contratti in un unico sovra-codice [32]:

1.Ur-Codice o Codice dei codici o Codice della Realtà vissuta: è il primo e il più profondo, ciò su cui poggiano tutti gli altri. È quello in cui avviene la prima. più radicale e immediata auto-cifrazione della presente concreta e vivente delle cose.

2. Codice della Realtà osservata: è il momento in cui la Realtà si presenta come oggettiva a un osservatore che si limiti a contemplarla, a guardarla, senza proferire alcuna parola, senza parlarla, ovvero senza tramutare la manifestazione pura delle cose in un codice ad esso improprio, difforme ed estraneo.

3. Codice della Realtà immaginata e rappresentata: ci muoviamo qui ad un livello superiore rispetto al precedente: il terminale è sempre scandito da una prensione ottica o para-ottica, ma il pattern della Realtà riprodotto ha già ricevuto una segmentazione data dal ricordo o dalla riproduzione onirica. Le cose continuano a presentarsi nella loro pura dimensione analogica, ma il soggetto ha già trascelto tra di esse quale far apparire e quale espungere dalla raffigurazione.

4. Codice della Realtà evocata o verbale: è il momento in cui subentra la lingua, ovvero un codice del tutto diverso da quello in cui si esprime la Realtà nel suo monologare. Forzando un po’ la mano potremmo dire che si tratta di un passaggio traumatico poiché il vettore analogico qui si arresta per lasciare il posto ad altre tipologie di codificazione.

5. Codice della Realtà raffigurata o riprodotta: in effetti Pasolini suddivide questo macro-codice in quattro codici: Realtà Raffigurata, Fotografata, Trasmessa, Riprodotta. Noi però proponiamo questa formula sintetica delle quattro varianti perché crediamo che, sebbene le formule di organizzazione sintagmatica del materiale siano molto diverse tra di loro anche in relazione al medio scelto per la coordinazione, il principio che ne sta a fondamento sia il medesimo, ovvero la selezione all’interno del primo codice di una porzione limitata di Realtà, la quale quindi viene condotta a dire se stessa secondo un montaggio di elementi che rischia sempre di snaturarla o di alterarla. In questo codice quindi Pasolini torna a far operare la matrice analogica, ma sulla base di un sistema di coordinazione che non appartiene direttamente alla analogia pura del primo codice. Quest’ultima tipologia sembra una specie di ibrido tra i codici a prevalenza analogica e quello travagliato dalla lingua: la cosa si mostra nella sua presenza ma questa è inserita in una catena frastica che la strappa dalla elocuzione naturale per incassarla in un discorso che obbedisce ad altri criteri ad essa eterogenei.

Queste cinque tipologie di codice hanno alla loro base cinque assunti cardinali a cui Pasolini dedica molte pagine della terza sezione di Empirismo eretico. Naturalmente non è possibile stabilire una corrispondenza biunivoca netta tra la prima serie — quella dei principi — e la seconda — vertente sulla enucleazione dei codici — ma certo è indubbio che tra le due vi sia una strettissima correlazione. I cinque assunti però si trovano allo stato sparso all’interno dell’opera, Pasolini non ha mai cercato di darne la lista completa; nonostante ciò essi sono facilmente reperibili e, come era accaduto per i codici, desumibili secondo una matrice di derivazione da quello più profondo e prossimo all’incessante mormorio della Realtà a quello più superficiale, prossimo a tecniche di messa in forma della dicibilità che rischiano di allontanarsi della prima, aurorale parola-presenza degli oggetti. Ecco dunque i cinque principi della pansemiologia pasoliniana:

I. La Realtà naturale è un linguaggio costituito da segni che rivelano se stessi. L’ontologia pertanto è una sorta di immensa «tautologia autorivelantesi» presa in un continuum di processi senza evoluzione, pura e bruta diacronia. Da ciò è desumibile una «grammatica magmatica» che si esprime tramite il vettore analogico, il quale fa della percezione sensoriale l’espressione più diretta del codice sottostante a tutti degli oggetti come simboli figurali di se stessi [33].

II. Tale grammatica magmatica dà luogo a delle immagini primordiali le quali esprimono una fenomenalità irriducibile del reale che non può corrispondere al linguaggio proprio del codice scritto-parlato. Pasolini chiama tale immagini im-segni o cinèmi, i quali sono in primis ingerarchizzabili e in secundis esibiscono tre caratteristiche ineliminabili:
a. sono pre-umani (comunicano un mondo anteriore allo sguardo umano),
b. sono pre-grammaticali (comunicano un mondo anteriore alla parola umana),
c. sono pre-morfologici (comunicano un mondo anteriore alle concettualizzazioni umane). [34]
III. I cinèmi si muovono su una dimensione trans-linguistica che costituisce una sorta di infrastruttura intensiva di segni autorivelantesi in grado di esprimere forme, oggetti, stati di mondo. [35]

IV. Vista in tal senso la Realtà va colta nella sua mera manifestazione, quale «ontologia depragmatizzata», in cui il pragma che appare è unicamente inteso in termini di enigma, carico di sfumature afferenti quasi alla sfera del numinoso, ma di un numinoso ancestrale, privo di un qualsiasi dio antropomorfo, un numinoso «vedico-spinoziano». [36]

V. Anche il cinèma è analizzabile tramite doppia articolazione; usciamo qui dalle ramificazioni dell’Ur-codice per entrare nelle formulazioni dei linguaggi derivati, i linguaggi integrati. [37] Nel caso dell’immagine cine-fotografica il cinèma per esprimere qualcosa ha bisogno di individuare un oggetto — o una forma o uno stato del mondo — sulla base di una selezione che si innesta in esso in seconda battuta: nasce in tal modo prima la pragmatica della inquadratura e poi la logica del montaggio che, nell’ottica di Pasolini, se usati a dovere possono a tutti gli effetti divenire i veicoli per una «possibile riapparizione della Realtà». [38]

Come è possibile vedere da questi pochi cenni, siamo molto lontani da Barthes. Bisognerà aspettare La chambre claire perché anch’egli arrivi a posizioni affini a queste di Pasolini. L’operazione di vidage du sens proposta per la letteratura verrà trapiantata nel mondo delle immagini solo nel corso del suo ultimo testo. Dedicato a L’imaginaire di Sartre, mosso da una ispirazione para-husserliana che condurrà l’autore ad individuare in certi scatti di Kertész una curiosissima «noesi senza noema», [39] sarà con questo saggio del 1980 che Barthes riuscirà a trasformare la pragmatica della Spectatio in quel campo unico di osservazione intensa ove far collimare finalmente la interminabile fissazione dell’oggetto con la imponderabile fissione dei sensi. [40]


[1] L’espressione Semiologia come «decostruzione della linguistica» è di Barthes, cfr. OC V, p. 439.
[2] P. P. Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti, Milano, 1991, pp. 191 e 244. Da ora in nota sempre con EE.
[3] Cfr. U. Eco, La struttura assente, Bompiani, Milano 1969, pp. 276-280.
[4] Cfr. G. Deleuze, L’image-mouvement, Minuit, Paris 1983, p. 46.
[5] «Images qui me sidérent», cfr. OC IV, p. 581.
[6] OC IV, pp. 216-265.
[7] Riprendiamo qui la formula dal bel testo di Beaujour, Miroirs d’encre, Seuil, Paris 1980.
[8] In Roland Barthes par Roland Barthes vi è un testo dedicato proprio a ciò che l’autore chiama, riprendendo un’’espressione di Mallarmé, Démon de l’analogie e che inizia dicendo: «la bestia nera di Saussure era l’arbitrario (del segno). La [mia] è l’analogia». Cfr. OC IV, p. 624.
[9] Tutti scritti poi raccolti ne L’obvie et l’obtus, Seuil, Paris 1982.
[10] Cfr. L’impire des signes, «testo e immagini, nel loro incrocio, vogliono assicurare la circolazione, lo scambio di tali significanti: il corpo, il viso, la scrittura, e leggervi il ritrarsi dei segni», cfr. OC III, pp. 348-445.
[11] Si tratta un breve scritto del 1975 intitolato appunto Uscendo dal cinema. Cfr., OC IV, p. 782. Traduzione nostra. Va detto però che già nel luglio del 1964 Barthes per la rivista Image et son aveva affrontato il problema del rapporto tra cinema e semiologia – cfr. OC II, p. 622-628 – in un intervento nel corso del quale egli, dopo aver messo in luce i limiti effettivi di una ipotesi di trasponibilità dei parametri esplicativi della linguistica ai codici filmografici, si soffermava sulla necessità di analizzare in primis l’image seule. Alla luce dei suoi studi futuri sull’immagine fotografica e sul fotogramma, ci sembra che Barthes già in questo primo scritto avesse le idee piuttosto chiare su come avvicinarsi alla dimensione dell’immagine tramite un arsenale critico desunto dalla linguistica e della semiologia.
[12] Ivi, p. 781.
[13] Ivi, p. 780. Traduzione e corsivo nostri.
[14] OC III, pp. 485-526.
[15] In un testo del 1978 intitolato L’image Barthes parla esplicitamente di epochè, come sospensione delle immagini, cfr. OC V, p. 518.
[16] Ivi, p. 516.
[17] OC V, p. 526.
[18] La sequenza di immagini precedenti mostrava per lo più alberi.
[19] OC V, p. 529.
[20] EE, p. 137.
[21] OC II, p. 463.
[22] Fu proprio questa ricchezza semantica trasversale, la quale salda il minerale e il culturale in un lampo visionario, che attrasse Pasolini della lirica di Zanzotto e della scrittura di Volponi, cfr. P.P. Pasolini, Descrizioni di descrizioni, Garzanti, Milano 1984, pp. 369-384.
[23] Termine ricorrente in Pasolini, cfr. EE, p. 263.
[24] Ivi, p. 239.
[25] Ivi, p. 244.
[26] Ivi, p. 252.
[27] Ivi, p. 264. Corsivi nostri.
[28] Ivi, p. 257. Titolo del saggio è res sunt nomina, quasi a postulare la possibilità teorica di una corrispondenza piena e indefettibile di funzioni tra il nome all’interno della catena sintagmatica e la cosa all’interno delle nostre serie percettive continue.
[29] Ivi, p. 161.
[30] Tra cui Eco, Segre e Moravia. C’è da dire comunque che autori come Deleuze, Metz e Bellour apprezzeranno molto le analisi di Pasolini e più volte esprimeranno la loro vicinanza ad esse. [31] M. Merleau-Ponty, Le visible et l’invisible, Gallimard, Paris 1964, p. 238.
[32] EE, pp. 289-297. Elemento guida di tutta la classificazione è naturalmente l’analogia, qui intesa per forza di cose quale «segno iconico di se stessa».
[33] Ivi, pp. 193-197 e 279-281. «L’analogia è su superfici profonde», p. 230.
[34] Ivi, pp. 259 e 169.
[35] Ivi, p 199.
[36] Ivi, p. 280.
[37] Ivi, p. 250.
[38] Ivi, p. 276.
[39] OC V, p. 878.
[40] Ivi, p. 869.




Danied Boudinet, Créatis

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